C’è una cosa che mi ha colpito della manifestazione di sabato. Intervenedo dal palco Monicelli ha efficacemente spiegato la differenza tra uguaglianza e libertà e poi ha concluso con “viva la classe operaia”. Ora non stiamo lì ad ingrossare il fiume di inchiostro in piena che negli ultimi anni ha attraversato a diversi livelli le nostre coscienze, volenti o nolenti, sul concetto di classe operaia, sorpassata, invisibile, inesistente, progressista, emancipata, liquida, estinta. (Anche la classe operaia credeva di andare in paradiso e invece è finita in tivvù).
Eppure basterebbe con meno ipocrisia fare un’operazione molto semplice: evvive la classe precaria. Mettendoci dentro però proprio tutti. Non è il contratto di lavoro a fare l’operaio o il precario ma il lavoro in sè e nella misura in cui riesce a determinare la dignità di vita e le aspettative del lavoratore. Ormai ce l’abbiamo tutti la data di scadenza, basta un qualsiasi imprevisto nelle nostre vite che sono fatte di imprevisti.
E se nella classe precaria ci mettessimo finalmente tutti (operai che non sanno poi su quanti stipendi nominalmente indeterminati possono contare, precari a contratto, precari a progetto) dovremmo anche ammettere che questo salto psicologico non lo facciamo e non lo pretendiamo dal sindacato perchè in fondo tutti ci siamo messi in fila a vedere dove andava a finire questo fiume. Sono anni che stiamo lì nella logica del prendere o lasciare, ci lamentiamo ma poi aspettiamo il nostro turno alla mercè di quall’azienda, di quel capo, di quel professore, perchè sì il sistema è brutto e lo denunciamo, ma prima o poi dovrà toccare anche a noi.
La classe precaria è così vasta e così poco consapevole di sè che non riesce a lottare insieme, non può scioperare, non può produrre gran che effetto, perchè ha perso qualsiasi senso la contrattazione collettiva, siamo collettivamente insoddisfatti, ma individualmente impegnati a sopravvivere come si può.
Siamo così precari che non abbiamo più nemmeno l’idea della rappresentanza. E quindi ci siamo e non ci siamo, evaporiamo nelle piazze dopo averle riempite.